31 maggio 2020

Recensione


Recenzione 1

Pennellate ampie e decise, rapide intuizioni cromatiche che avvolgono in un manto onirico realtà oggettive spunti di circostante fatti rivivere attraverso la mediazione del “sentito” in una nuova essenza. Così ci appaiono le opere che Massimo Gozzi ha sottoposto alla nostra analisi: opere di indubbio interesse che danno modo di fruire del suo talento espressivo e della sua carica emotiva in maniera ampia e soddisfacente. Lo stile “immediato” tramite il quale egli realizza le sue “visioni” è senz’altro efficace ed incisivo, ed evita all’operatore l’alea di cadere in manierismi forzati e schematici: al contrario, gli permette di vivificare l’immagine che diviene corposa ed effettuale. Si intuisce, grazie al tipo di effusioni cromatiche, che ci troviamo di fronte ad un uomo aperto al sentimento, ad un uomo che ponendo sulla tela dati universali sa donarci anche un po’ del suo “particolare” trascinandoci col pensiero in una dimensione che è sua e di nessun altro: una dimensione che sembra possedere anche un che di estetico.
Sono opere che toccano le corde del sensibile e fanno ritornare alla memoria frammenti antichi, dolci poesie dei tempi trascorsi sui banchi di scuola, cose che allora a noi giovani ed irruenti sembravano non molto importanti e persino desuete, ma che oggi col famoso “senno del poi” ci appaiono preziose  ed insostituibili: ed ecco che di fronte ad alcuni dei suoi scorci naturali tornano quei versi: Oh fossi io teco: e perderci nel verde, e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie, gettarci l’urlo che lungi si perde dentro il meridiano ozio dell’aie…
Così in una sorta di transfert” mentale il fruitore si sente quasi sdoppiato e mentre la sua parte analitica rimane innanzi al quadro intenta allo studio del  “segno”  e dell’insieme, la sua parte romantica corre su quei prati e tra quegli alberi inebriandosi.

Adriana Alessio

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