Recenzione 1
Pennellate
ampie e decise, rapide intuizioni cromatiche che avvolgono in un manto onirico
realtà oggettive spunti di circostante fatti rivivere attraverso la mediazione
del “sentito” in una nuova essenza. Così ci appaiono le opere che Massimo Gozzi
ha sottoposto alla nostra analisi: opere di indubbio interesse che danno modo
di fruire del suo talento espressivo e della sua carica emotiva in maniera
ampia e soddisfacente. Lo stile “immediato” tramite il quale egli realizza le
sue “visioni” è senz’altro efficace ed incisivo, ed evita all’operatore l’alea
di cadere in manierismi forzati e schematici: al contrario, gli permette di
vivificare l’immagine che diviene corposa ed effettuale. Si intuisce, grazie al
tipo di effusioni cromatiche, che ci troviamo di fronte ad un uomo aperto al
sentimento, ad un uomo che ponendo sulla tela dati universali sa donarci anche
un po’ del suo “particolare” trascinandoci col pensiero in una dimensione che è
sua e di nessun altro: una dimensione che sembra possedere anche un che di
estetico.
Sono opere
che toccano le corde del sensibile e fanno ritornare alla memoria frammenti
antichi, dolci poesie dei tempi trascorsi sui banchi di scuola, cose che allora
a noi giovani ed irruenti sembravano non molto importanti e persino desuete, ma
che oggi col famoso “senno del poi” ci appaiono preziose ed insostituibili: ed ecco che di fronte ad
alcuni dei suoi scorci naturali tornano quei versi: Oh fossi io teco: e
perderci nel verde, e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie, gettarci l’urlo che
lungi si perde dentro il meridiano ozio dell’aie…
Così in una
sorta di transfert” mentale il fruitore si sente quasi sdoppiato e mentre la
sua parte analitica rimane innanzi al quadro intenta allo studio del “segno”
e dell’insieme, la sua parte romantica corre su quei prati e tra quegli
alberi inebriandosi.
Adriana
Alessio
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