Paesaggi ricchi
di colore, che un sapiente dosaggio degli accostamenti conducono ad una calda
armonia cromatica che accarezza l’osservatore e ad una plasticità, innovativa (non
necessariamente è il contrario di classico) che si struttura nella luce; paesaggi
in cui profondità ed esplosione di luminosità sono ottenuti con un’abile
applicazione della tinta sulla tela e mettendo a confronto tra loro i colori e
sfruttandone la reciproca influenza; paesaggi in cui gli elementi rappresentati
- forse per un approccio discreto, certo per rispetto davanti all’immensità
della natura - non hanno volutamente confini definiti e per questo occorre
osservare i dipinti da una certa distanza.
La pittura di
Massimo Gozzi è pittura di libertà e di suggestioni, e se è vero che il più
forte connotato del Post Impressionismo è stato la conquista di una personale
espressione artistica e la messa in scena di atmosfere emozionanti, la sua
inclusione nella schiera dei pittori Post Impressionisti è quanto mai esatta e
condivisibile.
E’ opinione di
chi scrive queste righe che, sebbene non debbano esservi limiti alla libertà
espressiva dell’artista, nel momento in cui ci accostiamo ad una di quelle
forme - pittura, scultura, fotografia, letteratura... - di cui noi umani ci
serviamo appunto per esprimersi, in quel momento ci assumiamo una qualche
responsabilità e la libertà di percorrere le praterie del processo creativo è
lecita dopo l’assunzione di questa responsabilità.
Insomma prima di
tagliare una tela, e con questo gesto affermare che l’arte non è solo forma ma
anche contenuto, bisogna avere un titolo: questo titolo Massimo Gozzi se lo è
conquistato nella prima fase della sua carriera artistica.
A dimostrarlo
sono i suoi magnifici disegni, alcuni datati altri recenti, sanguigne, disegni
classici, figure, ritratti che denotano un’attenta indagine psicologica, e nel
disegno, si sa, non si bara; e il chiaroscuro, come viene detto, vuol vedere il
pittore in faccia. Nello studio di
Massimo Gozzi, in quel di Poggio a Caiano - paese non distante da Firenze ma
già in provincia di Prato, per lo più collinare come dice il nome - è visibile
per esempio (ma non è in posto in primo piano al visitatore) uno straordinario bozzetto
di una mano leggermente incurvata quasi fosse nell’atto di scrivere, un
virtuosismo da parte dell’artista.
Massimo Gozzi è
nato nel 1946, ma non è da considerarsi pittore di lungo corso, la pittura è
venuta in maturità dopo anni di studio ed applicazione nelle arti musicali.
Maestro di Gozzi
è stato Silvestro Pistolesi, quasi suo coevo, il quale aveva scuola in via
della Robbia a Firenze. Pistolesi, artista definito dalla critica un ‘figurativo moderno-rinascimentale’ è stato a sua volta
allievo di Pietro Annigoni e dell’Annigoni ha conservato l’impronta.
Il rapporto con Pistolesi, fondamentale nella fase formativa,
non è durato però a lungo, perché Gozzi ben presto ha avvertito, prepotente, l’esigenza
di abbandonare le leggi scolastiche ed iniziare un processo personale che lo ha
portato infine ad abbandonare il pennello a favore della spatola. Le opere più
significative del suo lavoro sono realizzate con questo strumento, poco
conosciuto e ancora meno utilizzato.
Dipingere a spatola significa non cercare la definizione
dei dettagli e dei contorni: l’opera si compone con piani di colore; per quello
che abbiamo capito della poetica di Massimo Gozzi, la scelta dello strumento
non poteva essere altrimenti. L’uso della spatola, come si riconosce negli alberi,
nel fogliame, nell’acqua dei fiumi o del mare dipinti da Gozzi, conferisce agli
elementi fissati sulla tela un’idea di moto, di divenire: la natura è
cangiante, basta un refolo di vento e qualcosa verrà modificato. In questo c’è
un evidente distacco dall’ ‘hic et nunc’ degli impressionisti più conformi.
Ma attenzione, qua non siamo di fronte soltanto alla scelta
di una tecnica in ragione del risultato. L’uso della spatola nei dipinti di
Massimo Gozzi risponde almeno a due propositi-esigenze, garantisce una
ragionevole distanza dall’odioso realismo e consente di fare affermazioni che,
non per mancanza di personalità, ma per discrezione e rispetto, non devono
apparire nette laddove il soggettivismo spesso scivola nella presunzione.
La natura che è rappresentata è semplice, ma quell’accostarsi
rispettoso, di cui abbiamo detto, ugualmente attribuisce all’immagine tratti di
severità che la rende solenne, sebbene familiare. Non c’è l’inseguire della
bellezza, bensì un’interpretazione dell’armonia che, casualmente, è anche
bellezza. Manca invece l’elemento umano, e la scelta non è involontaria.
Solo nelle ultimissime opere che abbiamo visto nello studio
di Gozzi compare alfine (e infatti) la presenza umana, anche questa appare indefinita
come consegue dalla tecnica che lui adopera, ma c’è.
E questa innovazione - in una recente marina, che abbiamo
visto appena abbozzata, è addirittura prepotente - ha una sua ragione d’essere.
L’uomo, la figura umana, richiede di essere collocata, e allora, se questa sua
collocazione non deve essere solo di tipo estetico - magari un primo piano che
dia profondità all’immagine -, non è un affare da poco. Occorre per esempio
deciderne il rapporto con l’ambiente, il suo eventuale simbolismo, la storia
che racconta e in un pittore che compie il suo percorso con un’attenta quanto
ragionata gradualità, anche la figura umana, la più istintiva delle componenti
di una rappresentazione, non appare subito, non sarebbe possibile.
Intanto il percorso artistico di Gozzi non si ferma qui,
questa è ancora solo una tappa intermedia. Nuove idee e nuove tendenze già si
fanno avanti. Nel suo studio, un quadro, per ora posto in posizione discosta
dalle altre opere, richiama prepotentemente allo ‘schematismo’, ed è
probabilmente in questa direzione che si muoverà Gozzi nel futuro prossimo.
E si torna lì. Anche lo ‘schematismo’ con la
semplificazione che affida al segno ed ai colori, non è forse un’altra e ancor
più forte forma di libertà e, a differenza di quanto suggerirebbe il nome, di
rottura con gli schemi? E’ una pittura con un impianto facilmente riconoscibile,
fatta di segni in apparenza semplicisti, ma proprio in questa immediatezza
risiede la sua forza e il suo enigma.
La pittura non
può essere ingabbiata in schemi. Joan Mirò, proponeva di ‘ucciderla’, ‘assassinarla’ o ‘stuprarla’;
siamo sicuri che questo non è nei propositi di Massimo Gozzi, ma questa
semplificazione, ulteriore, non è altro che lo scrollarsi di dosso di lacci,
laccioli ma anche di pregiudizi e luoghi comuni.
Nella semplificazione - e si torna lì:
niente è più semplice da compiersi di una fenditura - c’è l’espressione ultima
del prodotto artistico che assolve fino in fondo il suo ruolo laddove ti
costringe a interrogarti, ci sono gli opposti che si toccano, e c’è quel
meraviglioso sunto che faceva scrivere a Giovanni Gentile: ‘la sintesi in cui
l’arte si attua è pure la sintesi che supera l’arte e ci dà la totalità dello
spirito e del mondo’.
Massimo Gozzi ha all’attivo un solido curriculum di
esposizioni, in Toscana, in Italia e all’estero, ora c’è attesa per la grande
mostra che il Caffè storico letterario Giubbe Rosse gli dedicherà nel mese di
giugno - è in calendario dal 29 di Giugno al 19 Luglio - che sarà l’occasione
per una rilettura dell’opera di un artista che con sussurri ha saputo creare
uno stile riconoscibile, ricco di suggestioni e di spunti di riflessione.
Nessun commento:
Posta un commento