19 agosto 2014

Recensione



Paesaggi ricchi di colore, che un sapiente dosaggio degli accostamenti conducono ad una calda armonia cromatica che accarezza l’osservatore e ad una plasticità, innovativa (non necessariamente è il contrario di classico) che si struttura nella luce; paesaggi in cui profondità ed esplosione di luminosità sono ottenuti con un’abile applicazione della tinta sulla tela e mettendo a confronto tra loro i colori e sfruttandone la reciproca influenza; paesaggi in cui gli elementi rappresentati - forse per un approccio discreto, certo per rispetto davanti all’immensità della natura - non hanno volutamente confini definiti e per questo occorre osservare i dipinti da una certa distanza.
La pittura di Massimo Gozzi è pittura di libertà e di suggestioni, e se è vero che il più forte connotato del Post Impressionismo è stato la conquista di una personale espressione artistica e la messa in scena di atmosfere emozionanti, la sua inclusione nella schiera dei pittori Post Impressionisti è quanto mai esatta e condivisibile.
E’ opinione di chi scrive queste righe che, sebbene non debbano esservi limiti alla libertà espressiva dell’artista, nel momento in cui ci accostiamo ad una di quelle forme - pittura, scultura, fotografia, letteratura... - di cui noi umani ci serviamo appunto per esprimersi, in quel momento ci assumiamo una qualche responsabilità e la libertà di percorrere le praterie del processo creativo è lecita dopo l’assunzione di questa responsabilità.
Insomma prima di tagliare una tela, e con questo gesto affermare che l’arte non è solo forma ma anche contenuto, bisogna avere un titolo: questo titolo Massimo Gozzi se lo è conquistato nella prima fase della sua carriera artistica.
A dimostrarlo sono i suoi magnifici disegni, alcuni datati altri recenti, sanguigne, disegni classici, figure, ritratti che denotano un’attenta indagine psicologica, e nel disegno, si sa, non si bara; e il chiaroscuro, come viene detto, vuol vedere il pittore  in faccia. Nello studio di Massimo Gozzi, in quel di Poggio a Caiano - paese non distante da Firenze ma già in provincia di Prato, per lo più collinare come dice il nome - è visibile per esempio (ma non è in posto in primo piano al visitatore) uno straordinario bozzetto di una mano leggermente incurvata quasi fosse nell’atto di scrivere, un virtuosismo da parte dell’artista.
Massimo Gozzi è nato nel 1946, ma non è da considerarsi pittore di lungo corso, la pittura è venuta in maturità dopo anni di studio ed applicazione nelle arti musicali.
Maestro di Gozzi è stato Silvestro Pistolesi, quasi suo coevo, il quale aveva scuola in via della Robbia a Firenze. Pistolesi, artista definito dalla critica un ‘figurativo moderno-rinascimentale’ è stato a sua volta allievo di Pietro Annigoni e dell’Annigoni ha conservato l’impronta.
Il rapporto con Pistolesi, fondamentale nella fase formativa, non è durato però a lungo, perché Gozzi ben presto ha avvertito, prepotente, l’esigenza di abbandonare le leggi scolastiche ed iniziare un processo personale che lo ha portato infine ad abbandonare il pennello a favore della spatola. Le opere più significative del suo lavoro sono realizzate con questo strumento, poco conosciuto e ancora meno utilizzato.
Dipingere a spatola significa non cercare la definizione dei dettagli e dei contorni: l’opera si compone con piani di colore; per quello che abbiamo capito della poetica di Massimo Gozzi, la scelta dello strumento non poteva essere altrimenti. L’uso della spatola, come si riconosce negli alberi, nel fogliame, nell’acqua dei fiumi o del mare dipinti da Gozzi, conferisce agli elementi fissati sulla tela un’idea di moto, di divenire: la natura è cangiante, basta un refolo di vento e qualcosa verrà modificato. In questo c’è un evidente distacco dall’ ‘hic et nunc’ degli impressionisti più conformi.
Ma attenzione, qua non siamo di fronte soltanto alla scelta di una tecnica in ragione del risultato. L’uso della spatola nei dipinti di Massimo Gozzi risponde almeno a due propositi-esigenze, garantisce una ragionevole distanza dall’odioso realismo e consente di fare affermazioni che, non per mancanza di personalità, ma per discrezione e rispetto, non devono apparire nette laddove il soggettivismo spesso scivola nella presunzione.
La natura che è rappresentata è semplice, ma quell’accostarsi rispettoso, di cui abbiamo detto, ugualmente attribuisce all’immagine tratti di severità che la rende solenne, sebbene familiare. Non c’è l’inseguire della bellezza, bensì un’interpretazione dell’armonia che, casualmente, è anche bellezza. Manca invece l’elemento umano, e la scelta non è involontaria.
Solo nelle ultimissime opere che abbiamo visto nello studio di Gozzi compare alfine (e infatti) la presenza umana, anche questa appare indefinita come consegue dalla tecnica che lui adopera, ma c’è.
E questa innovazione - in una recente marina, che abbiamo visto appena abbozzata, è addirittura prepotente - ha una sua ragione d’essere. L’uomo, la figura umana, richiede di essere collocata, e allora, se questa sua collocazione non deve essere solo di tipo estetico - magari un primo piano che dia profondità all’immagine -, non è un affare da poco. Occorre per esempio deciderne il rapporto con l’ambiente, il suo eventuale simbolismo, la storia che racconta e in un pittore che compie il suo percorso con un’attenta quanto ragionata gradualità, anche la figura umana, la più istintiva delle componenti di una rappresentazione, non appare subito, non sarebbe possibile.
Intanto il percorso artistico di Gozzi non si ferma qui, questa è ancora solo una tappa intermedia. Nuove idee e nuove tendenze già si fanno avanti. Nel suo studio, un quadro, per ora posto in posizione discosta dalle altre opere, richiama prepotentemente allo ‘schematismo’, ed è probabilmente in questa direzione che si muoverà Gozzi nel futuro prossimo.
E si torna lì. Anche lo ‘schematismo’ con la semplificazione che affida al segno ed ai colori, non è forse un’altra e ancor più forte forma di libertà e, a differenza di quanto suggerirebbe il nome, di rottura con gli schemi? E’ una pittura con un impianto facilmente riconoscibile, fatta di segni in apparenza semplicisti, ma proprio in questa immediatezza risiede la sua forza e il suo enigma.
La pittura non può essere ingabbiata in schemi. Joan Mirò, proponeva di ‘ucciderla’, ‘assassinarla’ o ‘stuprarla’; siamo sicuri che questo non è nei propositi di Massimo Gozzi, ma questa semplificazione, ulteriore, non è altro che lo scrollarsi di dosso di lacci, laccioli ma anche di pregiudizi e luoghi comuni.
Nella semplificazione - e si torna lì: niente è più semplice da compiersi di una fenditura - c’è l’espressione ultima del prodotto artistico che assolve fino in fondo il suo ruolo laddove ti costringe a interrogarti, ci sono gli opposti che si toccano, e c’è quel meraviglioso sunto che faceva scrivere a Giovanni Gentile: ‘la sintesi in cui l’arte si attua è pure la sintesi che supera l’arte e ci dà la totalità dello spirito e del mondo’.
Massimo Gozzi ha all’attivo un solido curriculum di esposizioni, in Toscana, in Italia e all’estero, ora c’è attesa per la grande mostra che il Caffè storico letterario Giubbe Rosse gli dedicherà nel mese di giugno - è in calendario dal 29 di Giugno al 19 Luglio - che sarà l’occasione per una rilettura dell’opera di un artista che con sussurri ha saputo creare uno stile riconoscibile, ricco di suggestioni e di spunti di riflessione.

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